Tiro fuori i 10,000 pesos e glieli porgo. Francisca li mette in un borsellino di tela.
“Bienvenidas”, ci dice.
Sua figlia di due anni corre scalza nella polvere, rincorsa da due bimbi dai capelli neri corvini.
Mi trovo all’ingresso del villaggio della comunità Kogi, una delle 4 comunità indigene (le altre si chiamano arhuacos, wiwas, e kankuamos) che abitano la Sierra Nevada de Santa Marta.

Il mio primo incontro con la comunità è rappresentato da Francisca, una giovane donna dai capelli scuri e dagli occhi timidi.
Francisca trascorre le giornate accanto al banchetto di artigianato, alla soglia del villaggio.
Qui dove vende collane e borse a tracolla lavorate a mano a partire dal cotone che cresce nella comunità.
La vendita di questi prodotti locali è praticamente l’unica fonte di reddito della comunità, oltre ai 10 mila pesos che i turisti (troppo pochi, dato che il villaggio si trova a due ore a piedi dall’ingresso “Calabajo” in assoluto il meno conosciuto e gettonato del Parco Tayrona) pagano per visitare il villaggio.
Dopo pochi minuti scopriamo che le bellissime borse che vediamo esposte al banchetto di ingresso sono elementi prettamente maschili. “Fin da piccole, le donne portano le collane, gli uomini invece la borsa a tracolla”.
A spiegarcelo è Simon, un giovane bello come il sole, con una folta chioma e occhi brillanti. Sarà lui la nostra guida.

Quando gli chiedo perché i due oggetti caratterizzino i due generi, Simon non sa rispondermi. “E’ sempre stato così”, afferma.
In un secondo sono ricatapultata alle mie prime settimane in India.
Chiedere “perché” era per me l’unico modo per comprendere il mondo tanto diverso e inaccessibile che mi circondava. Inutile dire che le risposte mai soddisfavano la mia “occidentale” sete di conoscenza. E’ stato quando ho smesso di fare domande e ho iniziato a “sentire” la realtà con tutti e (sei) i sensi, che sono riuscita a penetrarla, e ad appropriarmene. Mi rendo conto che questo sarà l’unico modo per accedere al mondo di Simon.
Il villaggio è casa di 12 famiglie per un totale di 50 persone.
E’ composto da capanne, tradizionalmente costruite dagli uomini. In alcune delle capanne vivono le famiglie, mentre altre sono spazi di riunione e di incontro spirituale (rigorosamente separati per uomini e donne). La più grande è detta “nuhue”, è uno spazio per gli uomini ed occupa il centro della piazza principale.

La religione tradizionale Kogi (strettamente correlata alla struttura dell’universo cosmico e nella sua manifestazione dualistica) ha un ruolo fondamentale per comunità, che è guidata da un capo spirituale. Con lui (dico lui perché il giro spirituale è sempre uomo) gli abitanti si riuniscono per cerimonie religiose, come battesimi, funerali o riti di guarigione.
Al potere religioso si affianca (e sottostà) quello politico.
Eletto dagli uomini della comunità, il leader è colui guida le cerimonie di natura secolare. Queste si svolgono tre volte all’anno, “due durante il periodo delle piogge e una durante la stagione secca” ci spiega Simon. E aggiunge “ovvero durante i periodi di chiusura del parco Tayrona”. Faccio due calcoli: le cerimonie politiche devono svolgersi in ciò che noi chiamiamo mesi di gennaio, giugno e ottobre.
Mi rendo conto che la concezione del tempo di Simon è strettamente legata al trascorrere delle stagioni. Ma non è tutto. Quel “ovvero durante i periodi di chiusura del parco” mi fa capire che i ritmi della comunità sono fortemente condizionati dal governo colombiano e dalle sue politiche di gestione turistica.

Percepisco tristezza nella voce della nostra guida, quando ci spiega che la comunità non beneficia nemmeno in piccola parte del prezzo (54,000 pesos, 11 Euro circa) che ciascun turista paga per entrare al parco. Non dovrebbe essere così, ammette.
“In fondo i turisti pagano per visitare la nostra casa; perché è il governo colombiano a trarne beneficio?”
Ma non è tutto, e grazie al mio sesto senso di instancabile difenditrice dei diritti, annuso che la nostra guida sta per renderci partecipi di un’altra ingiustizia.
Simon ci dice che si sono trasferiti nel villaggio che stiamo visitando solo 15 anni fa. Prima il loro villaggio sorgeva a nella sierra di Palomino. Poi sono arrivati gli investitori internazionali e con loro gli fratti. La comunità si è quindi spostata nella Sierra de Santa Marta, dove hanno dovuto acquistare il terreno per la costruzione del villaggio.
Non credo sia né il luogo né il momento di aprire una discussione sul diritto alla terra, ma non posso esimermi dal commentare quanto appena detto. Mi concedo 9 righe per farlo.
Il legame tra la terra – un particolare territorio – e una rispettiva nazione -intesa come comunità, gruppo di individui- è alla base della definizione dei popoli come indigeni.
Insieme a questo c’è il riconoscimento che i popoli indigeni hanno il diritto di possedere, utilizzare, sviluppare e controllare le proprie terre.
La mancanza di una definizione dei diritti di proprietà che caratterizza la risorsa terra per le popolazioni indigene è estremamente problematica. Le crescenti pressioni commerciali sulla risorsa terra, l’accaparramento di terreni da parte di investitori così come l’estensione di attività agricole intensive destinate alla commercializzazione e all’esportazione mettono a rischio la sopravvivenza di questi popoli.
Che nel caso del Parco Tayrona ci accolgono nelle loro case e quando ce ne andiamo ci ringraziano pure.
Food for thought.

La visita nel villaggio continua attraverso le piantagioni di cacao, cotone e cannabis. Il sentiero è in salita, e ho il fiatone.
Mi rendo conto che Simon non ci ha parlato della presenza di una scuola; non resisto e glielo chiedo. Scopro che non c’è una scuola né altro luogo di formazione. Ogni genitore e nonno è responsabile dell’indottrinamento dei bambini, attraverso la trasmissione orale della cultura e i costumi Kogi. Non si fa cenno alla scrittura.
Attraverso l’oralità di trasmette anche la conoscenza della lingua.
Mentre la lingua ufficiale è il kogi, alcuni membri della comunità imparano anche lo spagnolo. Si tratta di coloro che hanno contatti con il mondo “esterno”, la società rappresentata da turisti in visita o gli abitanti del villaggio fuori dal parco Tayrona, da cui i Kogi si approvvigionano di riso e carne di tanto in tanto.
A parlare spagnolo sono quasi esclusivamente gli uomini, che diventano pater familia con il matrimonio, tra i 15 e i 18 anni. Simon ci dice che lui ne ha 19. Sua moglie che, seduta fuori dalla capanna ci guarda incuriosite alla fine della nostra visita, sembra averne molti meno. Sta allattando un bambino di cui vedo solo un ciuffi di capelli nerissimi.
Ignoro la voce occidentale nella mia testa e che mi dice ciò che è giusto e sbagliato, li ringrazio della accoglienza e continuo il mio viaggio.